Nel 2011 decisi due cose. Anzi, le decisi nel 2010, ma le avrei poi iniziate e finite nel 2011.
Decisi di lasciare il mio lavoro per un anno, per dedicarmi alle mie passioni. Una di queste, allora, ma in parte anche oggi, erano i mercati finanziari. L’altra anzi le altre erano le mie passioni. Il Surf, lo Snowboard, la Montagna, la Bicicletta…
Qualche giorno prima del Natale 2010 iniziai il mio “year-off”, un anno in cui decisi di “trasferirmi” a Viareggio, in camper, per poter operare e imparare ad operare sui mercati finanziari grazie all’aiuto di uno dei miei professori nel Master di Finanza del 2008. Rinunciai ad un anno di stipendi, bonus etc e misi mano a tutti i miei risparmi. Non rimase niente, anzi, alla fine dell’anno fui costretto a fare qualche lavoretto per arrivare alla fine dell’anno sabbatico e poter perseguire ancora due miei obiettivi di vita: l’Himalaya e l’Australia. Dire che sono emozionato ancora oggi per il coraggio che ebbi a fare quelle scelte è davvero un eufemismo. In tanti mi dissero bravo, fai bene, goditi la vita che poi è una sola, ma loro non lo avrebbero mai fatto. Mi chiedo perché. Mi chiedo perché una persona è costretta a limitare le proprie idee, le proprie aspirazioni per paura di essere giudicato oppure per paura di essere troppo “fuori dal coro”. Una delle cose che ancora oggi mi fa sorridere e pensare a quanto fossi davvero libero di fare e di agire fu la logistica post Himalaya e pre Australia. Avevo incastrato i voli in maniera quasi impossibile. Se fosse andato storto qualcosa in Himalaya non sarei riuscito a prendere il volo per l’Australia. Tornai da Katmandu il 14 novembre, di sera. Da Milano, in macchina scesi dai miei. Avevo l’aereo il giorno dopo a Roma. Abbandonai letteralmente le mie valigie cariche di indumenti invernali: scarponi, ramponi, piccozze, sacchi pelo da -30 gradi, attrezzatura d’alta montagna e presi uno zaino. Misi dentro il minimo indispensabile, imballai la tavola da surf e andai a prendere il mio aereo verso la Gold Cost, Brisbane. Che spettacolo.
Oggi però ricorre la partenza per l’agognato Himalaya, organizzato con un mio grande amico, suo padre e mio padre, due alpinisti di vecchio corso, due lupi di montagna che da piccoli ci avevano instradato alla montagna. Fu un lungo avvicinamento alle vette, ai passi che si susseguono nella regione del Kumbu, tra il campo base del Cho Oyu e quello dell’Everest. 18 giorni circa di acclimatamento, di salite oltre i 5000 e discese rapide per dormire intorno ai 4000 fino all’ultimo avvicinamento al campo base dell’Island Peak, 5100 metri circa, sul fianco di una enorme Morena di ghiaccio e sassi e pietre e passaggi in continua trasformazione.
Oggi la strada sembra segnata, domani, lo stesso passaggio può non esistere più. In Himalaya tutto è in continuo movimento, tutto è sul “chi va là”. Ogni tanto, da qualche parte l’orecchio si tende verso lo stacco rumoroso di seracchi o pareti che stanno insieme grazie ad una reazione chimica del ghiaccio che ogni tanto viene a mancare. Il campo base è abbastanza gremito. L’Island Peak non è una vetta molto difficile tecnicamente e per questo molto ambita. Non è però neanche una passeggiata. Sei oltre i 5000 metri per diversi giorni, ci dormi, ci mangi, ci parti e ci torni. Il nostro campo è dotato di due tende d’alta montagna, di una per le due guide e una tenda cucina con cuoco e 4 sherpa che si sono fatti carico di parte della nostra attrezzatura per oltre 20 giorni.
Fortunatamente il tempo è buono e alla nevicata giornaliera segue una stellata notturna commovente. L’Himalaya ti strega anche per questo, per le notti incredibilmente terse che regalano la vista di miliardi di stelle che staresti a guardarle per tutta la notte.
Decidiamo di ridurre l’attesa per la vetta al minimo. Il tempo per il giorno seguente è molto buono mentre a valle, sotto i 3000 sta succedendo qualcosa che ignoriamo totalmente. Nebbia, vento e pioggia stanno sferzando Lukla. Gli aerei non volano da una settimana e si è creata una situazione di stallo insostenibile. L’esercito tramite gli elicotteri porta viveri alla popolazione e agli alpinisti di ritorno dalle cime alte, ma a Katmandu non si vola. Gente che dorme per terra, non mangia da giorni. Noi, “salvi”, oltre quota 5000 mila facciamo colazione all’1 di notte con il solito brodino di pomodoro e cipolle, con dentro qualcosa simile alla pasta, ai noodles. Va bene tutto, abbiamo bisogno di mangiare. Le nostre provviste italiane, salsicce secche, parmigiano, cioccolata sono ormai finite da qualche giorno.
L’ascesa alla luce delle nostre frontali nella pietraia è abbastanza facile e comoda. Il primo cambio di assetto avviene nel punto in cui le pietre si mischiano al ghiacciaio e il pericolo crepacci è alto. Entriamo in cordata, con piccozze in mano e ramponi sotto gli scarponi d’alta montagna. Mancano poco più di 400 metri di dsl ma l’ossigeno manca, si respira a fatica e la montagna sale. L’alba fa capolino da Est, dove il sole comincia a far avvicinare la temperatura dai meno 15 verso un accettabilissimo -10/5. L’ultima parete verticale è molto divertente. Ci arriviamo abbastanza in fretta recuperando diverse cordate partite diverse ore prima di noi. Le guardo. Guardo il loro passo. Qualcuno procede facendo una sosta ogni due o tre passi. Macinano poche centinaia di metri per ora. Mi chiedo come possano arrivare in vetta ad un orario decente per poter essere certi di non dover tornare di nuovo durante la notte rischiando grosso, molto grosso.
L’ultimo traverso vero la vetta, dopo il tratto verticale è stupendo. Un piccolo passaggio dove ci entrano a malapena due piedi. Strapiombo a destra. Strapiombo a sinistra. E’ emozionante alzare lo sguardo e vedere la cima avvicinarsi al cospetto del Lothse e del Nuptse, un ottomila e un settemila, per niente facili. La piazzola in vetta, con al centro l’ancoraggio di assicurazione è abbastanza piena. E’ freddo. Soffia un vento gelido e si fa fatica a parlare. Il tempo di scattare due foto, abbracciarci tutti insieme alle due nostre guide e iniziamo la discesa verso il campo alto. Scendendo tornano in mente gli oltre venti giorni passati in mezzo a montagne immense. Storie di alpinisti che qui hanno scritto imprese memorabili e storie di morte, di targhe messe a commemorazione di vite spezzate per la propria passione. Ognuno ha avuto quello che ha cercato. Qualcuno si è spinto troppo oltre e non è più tornato. Qualcun altro ha saputo dire basta e ha potuto ritentare. Qualcun altro invece come noi, torna a casa con un vuoto immenso, quello che ti lascia quando da uno degli aeroporti più pericolosi del mondo, Lukla, voli verso Katmandu.
L’Himalaya è tanto. E’ tutto per tanti e troppo per alcuni.
Emanuele
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