Quello che è successo sul K2 qualche giorno fa ormai lo sanno anche i sassi nascosti sotto i metri di neve caduti in Italia nell’ultimo mese. Riassumendo in due parole, i “nepalesi”, gli Sherpa nepalesi hanno violato quella che era l’ultima barriera nella scalata degli 8000 invernali: il K2, forse, anzi senza forse uno degli ottomila, forse il più, tecnico in assoluto. Non che di montagne tecniche in giro non ce ne siano, altrochè. Ma tra gli ottomila, a detta di chi li ha saliti, sembra essere una delle più tecniche, insieme al Nanga Parbat. Giusto per specificare ed evitare di dare adito a chiacchiere inutili. Non è che salire l’Everest, il Cho Oyu o il Manaslu sia una passeggiata sul lungomare di Riccione. Ma a parità di difficoltà di ambientamento, acclimatazione, respirazione, freddo, meteo etc c’è qualche difficoltà tecnica in più. Cosa vuol dire? Che non basta camminare e resistere ma bisogna anche sapere star attaccati alla parete molto, molto bene e conoscere qualche “tranello” che il “K” spesso tira.
Detto ciò, l’obiettivo di questo racconto non è affrontare ciò ma capire chi sono gli Sherpa.
La conquista del K2 ha fatto molto scalpore e in tanti ci hanno ricamato sopra perché a conquistare l’ultimo 8000 invernale sono stati proprio 10 di loro. 10 Sherpa Nepalesi. Onore a loro.
In realtà il loro onore non può essere “ridotto” solo alla conquista del K2 in sé. Tutti e 10, chi più chi meno, hanno alle loro spalle decine e decine di 8000 al loro attivo spesso saliti con un filo di gas per accompagnare spedizioni “commerciali” alle quali hanno venduto i loro servigi di esperti della montagna e “muli” di alta montagna.
A questo proposito mi preme far una distinzione. A volte gli Sherpa vengono definiti, secondo me non a ragione, i portatori. In parte è vero, spesso hanno anche quel compito ma ritengo che gli ultimi sviluppi sugli ottomila li abbiano lanciati verso una vera e propria trasformazione verso i “tecnici” della montagna, quelli che sanno per filo e per segno dove passare, dove fissare un chiodo su una parete, dove e come attrezzare una salita e una discesa, dove piazzare un campo, perché, e perché no. La loro esperienza è ormai talmente specializzata che averne uno o due al fianco in un tentativo tende la linea tra un successo e un fallimento. Sono coloro che accompagnano gli alpinisti ad attrezzare le salite e i campi alti. Su e giù su e giù dai pendii per migliaia di metri di dislivello per rendere la salita più agevole, meno ingombrante a livello di attrezzatura personale da portarsi in spalla e soprattutto sono coloro che in situazioni di pericolo sanno cosa possono fare e cosa no. Perché? Perché nella stragrande maggioranza dei casi per loro è un deja-vù, qualcosa di vissuto, visto in precedenti esperienze. E allora i portatori chi sono? Nella mia esperienza Himalayana fino alla conquista di un “modesto” 6000 ho conosciuto meglio i secondi. Il “parco” del Kumbu, la valle dell’Everest, e le valli circostanti ne sono piene. I portatori sono solo coloro che aiutano le spedizioni a trasportare i loro bagagli da 20/30 a volte 40 chili per chilometri e chilometri in mezzo a sassi e ghiaccio ma sono anche coloro che permettono che oltre certe altitudini ci possa essere un modo per approvvigionare i lodge delle provviste che i trekkers e alpinisti consumeranno nel loro cammino verso i campi base, verso le vette intermedie, verso i passi di alta montagna. I portatori sono coloro che addosso hanno una tuta, due ciabatte, una felpa e 40 kg sulle spalle da trasportare per chilometri e chilometri. Sono anche coloro che spesso nel loro ritorno verso valle trasportano i rifiuti prodotti in quota dai lodge, dai turisti alpinisti e tutti gli avventori della montagna. Sono i poveri, poverissimi cristi che conoscono ogni passo di quelle maledette, per loro, montagne che sfamano le loro famiglie ma che a 50 anni li stroncano per la fatica. In Nepal si muore letteralmente di fatica, mica si va in pensione. Chissà che qualcuno di quei 10 nepalesi che hanno fatto la storia invernale del K2 non abbia mosso i primi passi proprio come portatore. In fin dei conti non sarebbe così strano. A 12/13 anni sono già sul pezzo con 30 chili sulle spalle. Non ve lo dico per sentito dire, ma perché il mio di portatore ne aveva 15 e lo faceva da due anni. Aveva le ciabatte quando io ai piedi avevo il top di gamma degli scarponi possibili. E pure, a tratti mi lamentavo che mi facevano male. Aveva dei piedi che un vecchio di 80 anni in confronto li ha come un bambino appena nato. Eppure erano felici. Dormivano in delle stalle, vere e proprie stalle. Uno accanto o sopra all’altro per tenersi caldo. Si per tenersi caldo nelle notti fredde.
Oggi lo Sherpa è un mestiere, anzi una professione assolutamente fondamentale e assolutamente riconosciuta indispensabile per la conquista di vette importanti. Per capirsi e per concludere: lo Sherpa sale un 8000 come un qualsiasi alpinista da tastiera sale le scale del condominio al quarto piano senza ascensore, senza buste della spesa né la rete delle arance da 2 kg.
Morale: ossigeno o no, un filo di gas e “s’abbracciamo” come direbbero a Roma.
Emanuele Iannarilli
Pic: Montagna.tv
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